Slick.1.2020

Su SLICK Magazine, l’intervista di Enrico Borghi al Dr Zasa ” Safety First”

( febbraio 2020) Su SLICK Magazine, l’intervista di Enrico Borghi al Dr Zasa ” Safety First”

Il nome suscita ricordi, emozioni. Evoca un periodo leggendario. La Clinica Mobile è una istituzione, che resiste perché si evolve, cambia, si adatta. Che posto ha, oggi, nel mondo della Velocità? SLICK ne ha parlato con Michele Zasa.

La società è cambiata, rispetto ai tempi gloriosi del dottor Costa. E sta cambiando. Cosa vuole essere, oggi, la Clinica Mobile?

«Potrebbe sembrare banale, ma vuole proseguire lungo la strada tracciata dal fondatore, Claudio Costa. All’inizio era un sogno: è lui, che l’ha trasformato in realtà. Noi portiamo avanti questa struttura pur consapevoli, certo, che dobbiamo adeguarci ai tempi nuovi. Oggi le conoscenze mediche e fisioterapiche sono più ampie, e sono diverse, perciò cerchiamo di essere all’avanguardia e di applicare i protocolli migliori. Non è facile, ma sono confortato dal fatto che questo ci viene riconosciuto».

All’atto pratico, cosa significa?

«In sostanza: cerchiamo di essere parte integrante del cambiamento e del miglioramento delle questioni che attengono alla sicurezza. Negli ultimi 10 anni sono stati fatti passi da gigante in termini di protezione dei piloti, e parlo di caschi, tute, guanti e anche di altri sistemi. Ecco, la Clinica Mobile ha fatto parte dello sviluppo di questo settore, quello della protezione. Il grande lavoro lo hanno fatto l’IRTA (nel far passare il messaggio che i piloti vanno tutelati) e la Dorna (che ha recepito questa esigenza), ma noi siamo parte di quel sistema. A ben vedere, c’è un collegamento col passato: il dottor Costa fu tra i primi a partecipare ai progetti embrionali di protezione, come ad esempio l’airbag. Quindi stiamo continuando questo percorso».

È corretto indicare il 2003 come anno della svolta, per la sensibilizzazione del settore riguardo alla protezione?

«Certo, la situazione si è sbloccata davvero dopo l’incidente di Daijiro Kato. Nel 2003, appunto. È stato un passaggio drammatico e fondamentale: è nata la Safety Commission, ed è stata un’iniziativa importante perché ha prodotto quel cambiamento di cui anche oggi vediamo le conseguenze positive. All’inizio erano incontri informali tra piloti, piano piano sono stati formalizzati ed oggi la Commissione Sicurezza è un organismo di rilievo».

Invece quando è iniziata la nuova gestione della Clinica Mobile?

«Nel 2014. Io ho cominciato a seguire il dottor Costa, in circuito, tra il 2010 e il 2011. Facevo esperienza, essendo un medico rianimatore. Nel 2014 il dottor Costa ha deciso di fermarsi, così ho rilevato la struttura insieme ad un socio che si chiama Guido Dalla Rosa Prati ed è un imprenditore del settore sanitario. La nuova sede è a Parma, dove viviamo noi».

Quante persone sono coinvolte?

«In questo momento siamo un gruppo di una cinquantina di persone. L’impegno è su tanti fronti, cioè MotoGP e Superbike. È un impegno grosso, anche dal punto di vista della gestione».

La Clinica Mobile, nel paddock di oggi, che competenze ha?

«In sintesi, cura i piloti, perciò è una struttura sanitaria. Ma il discorso è più ampio, perché in realtà fa tante cose e in diversi campi. Partirei dall’aspetto che, dall’esterno, si tende a conoscere meno: una stagione di Mondiale è molto lunga, perciò ad un pilota capitano problematiche di ogni tipo, a volte anche non legate alla pista. Per esempio: la sindrome da sovrallenamento non influisce solo sul rendimento atletico, ma ha anche degli effetti collaterali come la diminuzione delle difese immunitarie. Questa è una cosa comune anche ad altri sport, tra gli atleti di alto livello, quando si è impegnati in stagioni lunghe e con frequenti cambi di clima. Appena un pilota ha un problema, la Clinica Mobile lo assiste». 

Insomma, è una sorta di rifugio. Ma lo è sempre stato.

«Sì, è così. Lo è per tutti, ma in particolare per i più giovani e quindi i meno esperti. Consideriamo che abbiamo a che fare anche con ragazzini di 15-16 anni, e per loro non è tutto così scontato. E in questo senso vorrei sottolineare che la Clinica Mobile è anche una specie di seconda famiglia dei piloti: loro si fidano molto di noi, ci chiedono spesso consigli. E i più giovani, sono quelli che hanno più bisogno di questo tipo di consulenza. Oggi il livello è così estremo, e gli investimenti sono così elevati, che un’infezione alle vie aree può rovinare una gara. E magari, anche un campionato».

In effetti, si tende a guardarsi dall’infortunio grave, ma le insidie sono infinite… 

«Ed è il motivo per cui, di fatto, la Clinica Mobile fa medicina generale come attività parallela a quella relativa alla consulenza ortopedica e fisioterapica, legata a patologie da usura e da trauma. Poiché la missione consiste nel curare, cerchiamo innanzitutto di fare un lavoro preventivo con la fisioterapia: quindi curare i piloti non significa solo assisterli dopo che si sono infortunati, ma anche prevenire i danni ove possibile. Questo purtroppo è uno sport dove l’infortunio è frequente».

Per quanto banale, è il punto centrale.

«Va detto che tutto il settore sta facendo grandi sforzi – le protezioni sono migliorate moltissimo, e siamo al punto in cui per entrare nel Mondiale i produttori di caschi e tute devono garantire certe caratteristiche e passare determinati test – ed è aumentata l’attenzione dei circuiti alle vie di fuga. Ma resta un fatto: il pilota cade e si fa male lo stesso. Con 70/80 piloti in pista, noi vediamo almeno una frattura in ogni weekend di gara». 

Quali sono i traumi più frequenti che si registrano durante un weekend di Mondiale?

«Principalmente si tratta di fratture a mani, polsi, clavicole, piedi e caviglie. A livello di lussazioni, invece, c’è tutto il comparto delle spalle, gleno-omerale e acromion-claveare; sono i due tipi di lussazione della spalla che vediamo più di frequente, in Velocità. Ma vi sono anche altre problematiche, al di là del trauma da caduta».  

Di cosa si tratta?

«Abbiamo in primo luogo una problematica da postura: questa porta all’artrosi cervicale, che si manifesta sin da giovane. Spesso anche i ragazzini, indossando un casco e restando in una determinata posizione per tanto tempo, presentano questo problema; perché l’artrosi cervicale è dovuta alla posizione innaturale che si assume sulla moto».

Questi problemi dipendono anche dall’aumento vertiginoso delle potenze, quindi dalla forza richiesta per le frenate, dagli angoli di piega, ecc…

«Sì, stanno aumentando le problematiche legate proprio alla guida della moto. E vanno studiate a fondo. Ad esempio, la sindrome compartimentale è una patologia sport-correlata, legata allo sforzo dell’avambraccio. Non tutti i piloti ne soffrono, però è diventato uno dei maggiori problemi correlati allo sport motociclistico di oggi, insieme alla patologia a carico della colonna vertebrale».

Parli spesso di lavoro preventivo. In cosa consiste, nel caso di uno sport così complesso?

«Va premesso che evitare l’infortunio è difficile, perché non si può evitare una caduta. Perciò lavoriamo anche insieme ai produttori dell’abbigliamento tecnico, per ottimizzare la protezione. Abbiamo un buon supporto da parte di diversi protagonisti del mondo dei produttori di tute e protezioni. In questi anni abbiamo raccolto tanti dati, e nel 2014 abbiamo fatto una pubblicazione scientifica insieme alla Stanford University, in merito ai traumi dei piloti per studiare in maniera scientifica quello che si fanno i piloti. Lo sapevamo già, e lo sapeva anche il Dottor Costa, ma in questo modo lo abbiamo “oggettivizzato”».

Stanford University? È un approdo importante.

«È stata una esperienza molto interessante, anche se estemporanea. Noi comunque facciamo ricerca scientifica costante, con la finalità di raccogliere dati per migliorare il sistema di cura delle varie problematiche con particolare attenzione alla fase del recupero e della prevenzione. Abbiamo realizzato diverse pubblicazioni sulle riviste scientifiche; ne facciamo una media di una-due all’anno. E in questo periodo la ricerca sulla sindrome compartimentale è uno dei casi su cui lavoriamo di più. L’attività di ricerca ci permette di migliorare la tutela e la cura dei piloti in pista, ma serve anche ad aiutare l’utente di tutti giorni che va in moto per strada. Queste ricerche sono materiale di consulenza anche per le aziende che si occupano di sistemi protettivi».

Restare al passo coi tempi, significa anche investire nelle attrezzature, naturalmente.

«Sì, ma per noi è fondamentale la formazione del nostro personale. Quindi, conoscenza ed esperienza di chi lavora con noi. Poi, è vero, certe macchine sono importanti e abbiamo dei partner tecnici per le attrezzature medicali. Abbiamo evoluto molto l’area della radiologia: la radiografia digitale offre immagini molto più definite, perciò ci permette di scoprire anche le microfratture, che una volta magari sfuggivano. E abbiamo anche un ecografo molto sofisticato».

E questo a cosa serve?

«Lo utilizziamo per valutare le conseguenze di un colpo forte, magari all’addome; ci permette di capire se c’è una emorragia in atto, ad esempio. Ma lo usiamo anche per valutare la situazione dei muscoli e dei tendini, in modo da impostare un piano di riabilitazione».

Quando è nata, tra gli anni ’70 e ’80, la Clinica Mobile si occupava anche del soccorso. Oggi non è più così. Anche questo è un segno dell’evoluzione dei tempi?

«Beh, l’evoluzione è stata impressionante: nei primi anni ’70 se cadevi poteva capitare che qualcuno del pubblico presente ti caricasse su un’auto e ti portava in ospedale… All’epoca non esisteva nessun tipo di servizio sanitario in pista. Il dottor Costa è stato il primo a pensare a questo. E dalla metà degli anni ’80, bene o male tutti i circuiti hanno iniziato a strutturarsi in questo senso, cioè a organizzare un servizio di emergenza in pista».

Quindi, la Clinica Mobile ha smesso di occuparsi di emergenza in pista?

«Sì, perché la FIM regola il servizio di emergenza in pista: stabilisce che ogni circuito deve dotarsi di medici locali che svolgono una determinata attività. In più c’è la Dorna, che ha posizionato un proprio servizio di emergenza in pista, a supporto e supervisione di quello del circuito».

Il centro medico del circuito che ruolo ha?

«È una sorta di piccolo ospedale in pista: vi lavorano i medici locali, e lì vengono svolte le prime manovre. Qui il pilota viene stabilizzato e, ove sia necessario, si dispone il trasporto in ospedale. Il trattamento definitivo deve, per forza, essere fatto in un ospedale. Se un pilota è grave, ed è molto instabile, prima di essere trasportato in ospedale va stabilizzarlo, ma poi è quella la destinazione».

La Clinica Mobile, in questo processo sempre più articolato, come interviene?

«Seguiamo il pilota dopo che è uscito dal centro medico. Ad esempio: se ha una frattura, noi lo seguiamo per il prosieguo dei trattamenti. Se durante il weekend di gara il pilota non si sente bene, viene da noi e diventiamo il suo gruppo sanitario di fiducia. Noi andiamo al centro medico come medici di riferimento del pilota, e come mezzo di raccordo con la Direzione Gara. Direi che c’è un’ottima collaborazione con i colleghi dei vari centri. Viste anche le nostre conoscenze ed esperienze, spesso i medici del centro medico ci chiedono un parere, e prendiamo decisioni condivise. Sempre nell’interesse del pilota».

 

Parlando di evoluzione e di cooperazione con le aziende, quindi anche le ricerche scientifiche, viene in mente l’airbag. Da quando c’è questo sistema, certe problematiche sono diminuite?

«È stato un iter abbastanza lungo, quello che ha portato all’airbag. Noi abbiamo avuto un ruolo anche nello sviluppo di questi sistemi, e c’è stato un passaggio precedente: abbiamo dato il nostro parere sull’obbligo dell’utilizzo del paraschiena, che fino al 2016 era facoltativo. Quindi, già rendere obbligatorio il paraschiena secondo me è stato un passaggio importante».

E l’airbag che iter ha avuto?

«È stata creata una commissione che si è riunita per due anni. È stata presieduta dalla IRTA, con la partecipazione di Dorna e tutti i produttori di tute: durante quei meeting è stata definita l’obbligatorietà del tipo di airbag che abbiamo oggi».

Come si chiama la commissione che decide queste cose?

«Clothing Manufacturier Working Group. Il suo scopo principale è stato quello di definire i livelli minimi di protezione del pilota. Io ho partecipato a queste riunioni in rappresentanza della Clinica Mobile. La commissione si è riunita per un paio di anni, tra il 2016 e il 2017, e l’airbag è divenuto obbligatorio nel 2018. È stato un lavoro collegiale, svolto indipendentemente dalle bandiere e dai marchi».

È stata anche definita la superficie del corpo che deve essere protetta dal dispositivo?

«Sì, e in questo noi della Clinica Mobile abbiamo avuto un ruolo nel definire la superficie minima di area. Ogni produttore può scegliere se coprirne di più, ma il punto più importante era fissare i livelli minimi. Il sistema difende in maniera importante la clavicola e la spalla, due comparti che sono interessati spessissimo dai traumi».

Riguardo al trauma vertebrale, con particolare riferimento al collo, siamo ancora lontani da trovare una protezione vera?

«Questo è un aspetto delicatissimo. Oggi non possiamo affermare che l’airbag protegga il collo, oppure che salverà certamente delle vite: questa è utopia. Però è sicuramente un ulteriore passo avanti anche nella protezione del collo, rendendolo un po’ meno vulnerabile. Il lavoro, in questo caso, è all’inizio; ma se tanto è stato fatto, c’è la volontà di fare ancora tanto».

Esiste già una casistica su cui ragionare, dal punto di vista scientifico?

«Per un parere scientifico occorrono più dati prima di fare certe valutazioni, perché questo sistema è stato inserito da troppo poco tempo, ma ho visto che l’airbag sta facendo il suo lavoro e lo ritengo un grande passo in avanti. Ad esempio, è vero che vediamo ancora tante fratture della clavicola, però sempre meno del tipo scomposto. Ed è già un progresso. Ricordiamoci sempre che parliamo di cadute a velocità importanti».

Ed è anche vero che spesso è il casco, che provoca quella frattura.

«Sì, è così. Forse non è molto noto, ma se si analizza un high-side si scopre che nella maggioranza dei casi il pilota tende a mettere la mano giù, per ripararsi dal colpo. Ma dopo il volo, un corpo tende a cadere sulla spalla, e prima della spalla arriva la testa. Se è il casco a sbattere a terra, tende a colpire la clavicola. Quindi in certi casi è il casco stesso che rompe la clavicola». 

Ad un certo punto l’high-side sembrava quasi sparito, ma è tornato negli ultimi anni.

«Il discorso è più ampio: se intervieni in un settore, resti sguarnito in un altro. Ad esempio, negli ultimi anni, forse anche grazie all’elettronica, gli high-side si sono ridotti; ma allo stesso tempo stiamo notando traumi importanti a causa dei low-side. La scivolata. Se ci si pensa bene, di fatto l’high-side è un mancato low-side. La moto sta per scivolare ma improvvisamente recupera aderenza – vuoi perché il pilota l’ha recuperata, vuoi per intervento dell’elettronica – e in quel momento la moto lancia in aria il pilota. E lo fa con molta violenza».

La scivolata è ritenuta la caduta meno dannosa…

«Sono cadute banali se non arrivano altri piloti da dietro. Poi, anche il termine “banale” va usato con le virgolette perché in realtà stiamo parlando di cadute che oggi avvengono a velocità molto più sostenute, rispetto ad alcuni anni fa; bisogna considerare che, scivolando ad alta velocità, il pilota arriva nella via di fuga dove la ghiaia magari fa impuntare la moto, o il corpo stesso del pilota, e si comincia a ruzzolare, colpendo ripetutamente il terreno. È in quella fase, che ci si procura l’infortunio. In ogni caso, è molto interessante studiare la cinematica dei traumi, perché sarà questo a permetterci di trovare idee e soluzioni».

Ritieni che l’attività di Clinica Mobile a favore della sicurezza possa tornare utile all’utente della strada?

«Spero e penso di sì. L’obiettivo condiviso con i produttori di protezioni per moto è quello di sfruttare le conoscenza acquisite in pista per salvaguardare tutta la popolazione motociclistica. Questo nei limiti del possibile, considerando che il trauma da pista ha talora caratteristiche diverse da quello da strada. Al di là dell’attività preventiva, portiamo avanti la tutela dei motociclisti anche attraverso la presenza di centri di Clinica Mobile aperti sul territorio, dove gli utenti possono rivolgersi ai nostri professionisti che operano in pista. Al momento abbiamo un centro avviato a Piacenza, ed a breve in programma l’apertura di un altro centro nel nord Italia».

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